“Mic, Mac e la resilienza” di Maria Rosa Previti
a cura di Domenico Sinagra
Tante le suggestioni che si rendono palesi alla lettura di questo libro, per tutti, ma soprattutto per un medico.
Anzitutto quello che mi sembra il “leit-motiv” dell’intera narrazione: come reagire alla malattia. Si può reagire anzitutto ignorandola, accantonandola, in tal modo permettendo ad essa di avere il sopravvento sul “fisico”. Ma si può reagire anche, in maniera opposta, facendone un mostro che annienta tutte le risorse, sottrae ogni energia, occupando l’intera esistenza: è la vita “dentro la malattia”.
C’è un terzo modo, quello che mette in atto l’autrice del libro. Considerare la malattia, mettere in atto tutti quei meccanismi psicologici, terapeutici e relazionali che permettono di contrastarla efficacemente, con i suoi alti e bassi, con le vittorie e le ricadute, di cui è piena la vicenda patologica dell’autrice. Ma senza mai “dimettersi” dal vivere. Anzi, vivendo sì la malattia, ma “dentro la vita”.
E questo a prescindere dal successo o meno dei propri sforzi, dalla vittoria finale o dalla sconfitta definitiva. Combattere è sempre positivo, anche se si perde: riuscire a trasmutare comunque “la vita felice nella felicità di vivere”.
Con la nostra amica ci rallegriamo di averla qui con noi, a narrarci questa “avventura”. Per altre, che hanno combattuto con pari coraggio, non si può dire altrettanto: non si può trarre la convinzione che chi lotta vive e chi non lotta muore. La lotta, certo, dà qualche possibilità in più di vincere, ma non sempre.
Non colpevolizzare mai, comunque, il paziente, per ciò che riguarda la sua reazione, nelle sue fasi evolutive, ma sempre dargli appoggio, esercitando quella funzione di “counseling” non solo strettamente medico, ma anche psicologico, al fine di dargli gli strumenti per una risposta positiva alla sua patologia: “non sempre guarire si può, ma sempre curare si deve” (Cesare Frugoni).
Un’altra considerazione: Maria Rosa, nonostante tutto, ha creduto nella scienza medica, fallibile, perfettibile, che ha causato anche tutte le sequele che leggiamo nel libro, ma che è intervenuta sempre in ogni passaggio della sua storia. Senza la Medicina non ci sarebbero stati gli errori commessi, ma non ci sarebbero stati neanche i percorsi terapeutici risolutivi. Una scienza per definizione in cammino, ma una scienza che accompagna un percorso di cura. Una scienza anzi che per camminare “deve” paradossalmente incorrere in errori. Crediamo nonostante tutto nella scienza medica senza rifugiarci in “scorciatoie” basate sull’empirico e sull’irrazionale.
Medicina Basata sull’Evidenza scientifica (Evidence Based Medicine), dunque, ma centrata sul paziente, che non è comunque una macchina da riparare, ma una persona da curare: non solo l’ “oggettivo” scientifico, comunque da considerare, anche da parte del paziente, ma anche il “soggettivo”, cioè il vissuto, secondo una visione olistica della medicina che sempre più si sta affermando oggi dopo un periodo di primato dello sperimentale sull’esistenziale.
Responsabilità del medico è dunque anche la comunicazione, la presa in cura, l’accompagnamento, mai la “dimissione”. Mai mandare subito in frantumi la speranza, ma intraprendere una relazione di aiuto. Mai “inquisire” prendendo troppe distanze, ma neanche troppo coinvolgimento, che farebbe entrare emotivamente il medico nel circuito ansioso della paziente compromettendone la capacità di discernimento: una relazione “empatica”, che non trascuri la relazione, e privilegi la schiettezza al cinismo, salvaguardando “ in ogni caso il “filo di speranza” cui spesso i pazienti si appigliano.
“Il malato – dice la scrittrice – è ben di più è assai meglio della sua malattia, con la quale non va confuso nè identificato”. E in tutto questo si inserisce il ruolo della Medicina Narrativa, da vedere anche come “ponte” di comunicazione e di “riunificazione” del paziente e di coloro che se ne prendono cura.
Concludo questa mia riflessione con la citazione di un brano di un recente articolo di Massimo Recalcati: “Apologia della guarigione dal volto umano” (La cura torni ad essere madre) (La Repubblica, 2 novembre 2019):
“Umanizzazione delle cure: in altri termini porre la centralità della dimensione della cura in base alla singolarità dell`individuo-paziente senza rinunciare agli strumenti specialistici di indagine diagnostica e di intervento terapeutico più avanzati. Declinando ed implementando in maniera attuale e moderna il decalogo ippocratico, ogni pratica terapeutica, o meglio di cura, deve intendersi come cura dell`uno per uno così come l`amore materno rende ogni figlio unico, non secondo la legge del numero, ma secondo l`etica della insostituibilità.
Una cura umanizzata non lascia solo chi soffre anche quando ci si scontra con i limiti della terapia: la umanizzazione della cura diventa allora “prendersi cura” di chi soffre senza promettere guarigioni impossibili, privilegiando la salvaguardia della dignità del paziente.”.
Domenico Sinagra