Antonella Vara
L’imperfezione perfetta
a cura di
Maria Elena Mignosi Picone
“L’imperfezione perfetta” è il titolo della silloge di poesie di Antonella Vara, titolo che intriga, che suscita perplessità. Che significa? E’ come dire “La bella bruttezza” o “La brutta bellezza”. Ci suona come un controsenso. Quel che sorprende è infatti l’accostamento di due termini antitetici, di cui l’uno è l’opposto dell’altro, e ancor di più ci sorprende la loro fusione, come se fosse una cosa normale il loro accostamento.
Già, cominciando a sfogliare le prime pagine del libro, abbiamo subito l’impressione che Antonella Vara giuochi coi contrasti. Ci spieghiamo meglio. Noi tutti constatiamo che la vita è fatta di gioie e di dolori e li pensiamo questi due momenti come a se stanti, la festa o il lutto ad esempio; qui invece gioia e dolore si fondono insieme. Come è possibile? Basti pensare a quando, dinanzi ad una forte emozione, piangiamo e ridiamo nello stesso tempo. Non per nulla un’immagine molto cara all’autrice è l’arcobaleno, questo bagliore di luce e di colori, che compare immerso in un’atmosfera grigia e piovosa. Oppure un’altra immagine a lei cara è la primavera, in cui assistiamo allo sbocciare delle gemme sui rami rinsecchiti dall’inverno.
Ecco che ci appare come una peculiarità di Antonella Vara, la fusione degli opposti, l’armonia dei contrari.
E ora andiamo al senso che è insito nella espressione “L’imperfezione perfetta”.
L’aver aggiunto alla parola perfezione l’aggettivo “perfetta” ci fa intuire che la poetessa non attribuisce al concetto di imperfezione, quella connotazione negativa che in effetti ha. L’imperfezione per lei è qualcosa di naturale, quasi costitutiva, propria dell’essere umano. Sotto questo aspetto allora ella respinge la preoccupazione che in genere hanno tutte le persone, di nasconderla, non riconoscendo gli errori, coprendo i fallimenti, vergognandosi delle debolezze. E certo che così, occultando le pecche, siamo tutti perfetti.
Ma la perfezione che la nostra autrice prende in considerazione, non è questa, che è un’immagine falsa, come potrebbe essere quella dell’ipocrita. E in questi casi questo tipo di perfezione porta alla presunzione, alla superbia, alla durezza, e non favorisce certamente la buona qualità delle relazioni umane.
Allora Antonella Vara cosa fa? Esorta alla accettazione della imperfezione con la naturalezza, la semplicità, l’autenticità, quasi quella che è propria dei bimbi piccoli che non si vergognano affatto dei pasticci che combinano. Non se ne preoccupano.
E la poetessa ribadisce: “Siamo tutti poveri!…Poveri siamo / e commiserevoli di specie, / di dubbia bontà, lealtà, / precario altruismo, / poveri dentro…poveri…di tutto”. Povero non è solo chi manca di denaro ma anche il ricco può essere povero, ad esempio, di affetti.
E pure le virtù, come la lealtà, la generosità, e così via, sono sempre inficiate da qualcosa di negativo, e in nessuna persona, in nessun ambiente, società, ci si può illudere di trovare il paradiso. Questo contro la tendenza a idealizzare, a farsi illusioni, che poi vengono amaramente smentite. E c’è l’inganno, c’è la cattiveria, e, di conseguenza, la disillusione.
L’accettazione della imperfezione certamente non vuole essere condiscendenza alla approssimazione, alla negligenza. Anzi. Tutt’altro.
L’imperfezione è perfetta. Ha insita in sé la perfezione. E come mai? Mi piace pensarla questa idea, della perfezione nella imperfezione, come una imprescindibile, e quindi comune a tutti gli esseri umani, ansia di raggiungerla, un vivo, anche se recondito, anelito al raggiungimento della perfezione.
E qui mi sovviene dell’antico filosofo greco Platone: il mondo delle idee e della realtà. La reminiscenza e la nostalgia.
Reminiscenza e nostalgia che tanto spazio occupano nella poesia di Antonella Vara. Ci sono dei versi molto belli in cui così si esprime: “Ti lascio una poesia / in ricordo del mio passaggio” vi “…sentirai l’eco del rimpianto / di una perduta rara gemma”. Noi ci sentiamo anche l’eco di Platone.
La perfezione dunque sta nel fondo del cuore di ciascuno, anche del cuore che sembra più insensibile. Nella copertina possiamo osservare dei sassi su ognuno dei quali è impresso un disegno, di fattura della stessa Antonella, disegno bello, armonioso, colorato. E questa potrebbe essere l’idea della armonia, della perfezione che può albergare anche in un sasso, in un cuore duro.
E così in quest’opera su cui aleggia una certa aria di pessimismo, però, come arcobaleno in una giornata uggiosa, spunta la luce.
E’ la luce del’amore. “Viviamo per amare…amiamo per vivere”. Ma l’amore intriso di tenerezza, altrimenti che amore è? “…amore puro / di tenerezza nutre / la sua linfa”.
Luce della fede. “E’ fatale l’esigenza / di…/ ubriacarsi di fede”. Essa “irradia il sapere col sacro Amore / illumina la mente / col chiaro intelletto / verso la verità suprema”.
Nell’anelito alla perfezione c’è compresa pure la speranza della rigenerazione. “Risorgerà il sole / e ridarà il calore a nuovo dì” e “rimarginerà le crepature / di un tempo ingannevole”.
E con trasporto prorompe: “E’ voglia di vita / questo profumo che sale dentro / … nel proposito di cambiamento…nel rinnovamento di promesse d’amore, d’amicizia, equità e pace”.
E infine un’accorata esortazione. “Allarghiamo orizzonti / tenendoci per mano, “ e troviamo il coraggio / per essere umani…/ in un grande abbraccio / pieno di calore e speranza, / nel credo comune / di una stessa fratellanza”.
Un’ultima osservazione, che racchiude tutto il significato del libro. La silloge si chiude con una poesia intitolata “L’approdo”, in cui ella vagheggia come ultimo luogo del suo stare qui sulla terra, una borgata marinara. A tutta prima ci vien da chiederci: “Cosa c’entra?”. Riflettendo, il significato c’è. Infatti, quando la poetessa incita alla accettazione della imperfezione, in fondo, cosa c’è dietro? C’è l’invito alla umiltà cui porta la consapevolezza dei propri limiti e della propria debolezza. E l’umiltà, al contrario della durezza e della superbia, invece agevola i rapporti con gli altri; possiamo dire che l’umiltà è la porta che ci apre ad una bella relazione con gli altri. E in una borgata marinara, di fronte alla potenza del mare, che, se in un attimo si fa tempestoso, al pescatore che lo affronta, può togliere la vita, che cosa può sentirsi l’uomo? Può sentirsi superbo? No. Ecco allora che cade ben a proposito la borgata marinara, quasi simbolo di questa virtù, tanto difficile a trovarsi tra la gente, e che forse la poetessa ha stentato a trovare, per porre, come l’approdo della sua vita, la borgata marinara. Là sarà cullata dall’umiltà. “—quattro case bianche / con le persiane azzurre / si stagliano tra cielo e mare / in fila…lontano / l’oasi tanto cercata…/ …e mi addormenterò / col verso dei gabbiani / al rumore della risacca”.
Maria Elena Mignosi Picone